Lo spettacolo dipinto. Critica di Duccio Trombadori

LO SPETTACOLO DIPINTO

di Duccio Trombadori

Bruno Di Maio è un pittore virtuoso, cioè ricco di sapienza rappresentativa, e gioca volentieri con il pennello padroneggiando il mestiere al punto che lo potresti immaginare mentre realizza il suo spettacolo dipinto ad occhi chiusi, come un rabdomante. I suoi quadri sono fantasie a volte spericolate, a volte perdutamente misurate sulla attendibilità dei dati percettivi, che il pennello riconduce alle stesure e alle rifiniture più dettagliate, con effetti di consapevole adesione sentimentale alla immagine.

 

Non so se sia una indicazione autobiografica, o la necessità di rappresentare, come lo specchio di Narciso, una esauriente visione di personali esperienze vissute: fatto sta che la pittura di Bruno si qualifica in questa permanente tensione tra la facilità dell’operare tecnico e il piacere di percorrere i sentieri della infatuazione, della mobilità sentimentale, della avventura esistenziale e fantastica. Così, per lui, la pittura non ha la pretesa del programma poetico. Non sarà mai, per partito preso, verista simbolista surrealista metafisico realista iperrealista citazionista che dir si voglia.

 

Di Maio vuol essere prima di tutto sé stesso, quale lo conosciamo nella sua veste di professionista dell’immagine dipinta, e al tempo stesso uomo di sentimenti e di sincera commozione un galantuomo d’altri tempi insomma, che vive la sua esperienza di artista con integra semplicità di gesti e di comportamento. All’inganno dell’occhio si conforma la sua favola di linee e di colori, secondo una tradizione antica: e antico è in un certo senso il suo procedere incurante di tutte le oscillazioni del gusto, come se la pittura avesse una ricetta infallibile per guarire i malanni del tempo e per oltrepassare le inevitabili mode. E’ bello per questo motivo soffermarsi ad apprezzare l’evoluzione narrativa di certe sue tele, popolate di persone viventi e di allegri fantasmi evocati senza la complicità di un dizionario mitologico.

 

Vediamo ad esempio tre caravelle in cielo bigio, sopra una in certa plaga dove si avvicendano personaggi e tempi di una azione simultanea, un suonatore di fisarmonica, uno scultore e la sua modella, un angioletto in bicicletta, due goyesche damigelle dai seni pronunciati come i loro variopinti copricapi, e una ragazza in primo piano, un poco discinta, seduta su di un panneggio che sembra quasi il telo dismesso di un piccolo sipario. La descrizione sommaria di un dipinto ci consente di riflettere un poco sul divagante immaginario che il pittore ci presenta: sommatoria di piccole visioni, abbecedario onirico che non aspira alla consapevolezza, ma tuttavia ha il potere straordinario del racconto, dell’intrattenimento glorioso in un palcoscenico di continuo belvedere.

 

In questo senso Di Maio scrive in pittura una permanente autobiografia, sia che ritragga persone, o nature morte, o funamboliche e visionarie teratologie. Come il monsieur Dudron di Giorgio De Chirico, il nostro pittore trascrive sulla tela ogni esperienza di vita, attraverso sottilissimi richiami e trame misteriose che possono pure sfuggire al senno del pubblico, purché restino bene stampate nel risultato finale del quadro come evocazione.

 

A Di Maio, come al Dudron-De Chirico, la biografia serve per spiegare le ragioni che hanno suscitato l’espressione artistica. Egli è un pittore che polemizza, che ragiona, che osserva la vita, che vuole descrivere la sua arte. Per questo tutto diventa per lui “occasione”: perfino una notte “brava” in balìa di una signora “dalle chiome fiammeggianti” può far risplendere meditazioni e osservazioni attraverso le quali costruire un colore o disporre oggetti sulla tela.

 

E lo immaginiamo come monsieur Dudron, al termine delle peripezie attraversate un po’ controvoglia, un po’ per curiosità incontenibile, che alla fine “si sedette dietro al cavalletto, si armò della tavolozza e dei pennelli e, riprendendo un quadro abbozzato il giorno prima, si mise tranquillamente a dipingere”. Dopo le avventure condite di sogni e di fantasia, Di Maio riprende il suo colloquio col mestiere di pittore e costruisce la sua avventura di artista.

 

Per questo, nulla è stato inutile, nemmeno il più insignificante dettaglio di esperienza. C’è un fondo di superbia in questa auspicata solitudine del pittore, che è tutta da ascrivere a suo merito se con essa l’erario dell’ arte può acquisire gemme ulteriori. Sentiamo, ancora, il nostro Dudron: .”Nella nostra epoca, la storia dell’arte rimarrà famosa per l’ignoranza di quelli che si occupano di pittura”. Non capiscono che l’immagine non significa nulla, che l’unica cosa che sottrae una pittura all’oblio è la sua “qualità.” E’ questa definizione della “qualità” come essenza della pittura a farmi apparentare Bruno Di Maio al piglio “eroico” di Giorgio De Chirico nella sua battaglia contro le pulsioni antiartistiche del modernismo ideologico.

 

E’ una avventura fantastica, d’accordo. Vissuta nell’isolamento, e in forma di anacronistica reminiscenza di generi, tecniche, approcci espressivi dimenticati.

E pure, tutto questo modo di vedere, e di fare, in nome della “qualità”, è una provocazione fortemente contestativa del “culturale organizzato” dei giorni nostri, quello che predica l’effimero, la caducità dei mestieri, la stessa dissoluzione entropica dell’arte nel comportamento e nel territorio sociale. Come De Chirico, che si risolveva a scrutare con ironia il “demone” presente in ogni cosa, Bruno Di Maio si affida al suo fare di mestiere, e all’estro di una narrazione personale e fantasiosa, in polemica diretta col mondo dei critici-intellettuali, quelli che predicano la “nullità” della pittura, tanto quanto la “nullità” dell’essere. Niente di più lontano potrebbe esserci, nello spirito e nella inclinazione di Bruno Di Maio, che vuole trasformare ogni acido corrosivo della esperienza esistenziale in contemplazione, vuoi magica, vuoi serenamente sensuale, vuoi narrativamente malinconica.

 

Così i suoi personaggi stravaganti, le sue allegorie senza apparente significato, le teporose figure femminili accarezzate da una pasta colorata sapiente, tra il vivido e l’evanescente, diventano una testimonianza costante di un interesse attivo che il pittore ha per il mondo che lo circonda, e che egli attraversa come un “muto ospite”, avido di visione, interprete medianico.

 

Bruno Di Maio, nella sua sincera offerta di spettacolo dipinto, non mi pare abbia altra vocazione: egli è, puramente e semplicemente, un impeccabile parodista sinceramente e onestamente appassionato della “qualità” che riesce a conseguire nei risultati della sua espressione. E al di là delle “furberie” dei mestieranti, cosa altro mai deve essere, cosa altro mai è, se non questo, un autentico pittore?

 

Duccio Trombadori